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I dinosauri del Ténéré (parte II°)

mar 192018

La falesia del Kaouar, luogo di saline e traffici di ogni tipo, l'albero del Ténéré, gli scheletri dei dinosauri e, infine, Agadez

DAL CAPO VILLAGGIO

Siamo nel villaggio di Chirfa che è come a dire: gente, sabbia e poche capanne. Siamo l’attrattiva del giorno e le persone, donne e bambini in prevalenza, si accalcano intorno a noi. "Ma i soldi dove li cambiamo?","Dove facciamo benzina, dato che non ci sono distributori?". E già ora siamo in Niger e qui non solo gli accenti sono diversi, lo è anche la moneta. Però parlare francese aiuta ancora ed in pochi minuti riceviamo le indicazioni necessarie e scortati, da un festante corteo di ragazzini, alla capanna del capo villaggio. Questa di dare importanza alle autorità del luogo è una cosa che ho imparato negli anni e che si è sempre rivelata utile. Riceviamo le indicazioni che ci servono, chi contattare per comprare della benzina mentre il cambio lo possiamo fare direttamente con il capo. La prima banca la troveremo solo ad Agadez dove dovremo farci mettere il visto sul passaporto mentre cambio e benzina saranno possibili anche a Dirkou e Bilma, lungo la falesia del Kaouar. Questa falesia è una massa rocciosa non molto alta che delimita il lato est del deserto del Ténéré ed è una sorta di microcosmo. Infatti, muovendosi in direzione nord-sud lungo il bordo si incontrano diversi villaggi dove la coltivazione delle palme da dattero si affianca all’estrazione di sale (soprattutto a Bilma) creando merci per lo scambio carovaniero che avviene ancora, in parte, a dorso di cammello.

undefinedLA FORTEZZA DI DJADO

Il villaggio dista appena quattro chilometri alla città fortezza di Djado fondata circa 800 anni b.p, un tempo luogo florido, con quasi mille abitanti, terminale dei traffici di questa zona di deserto. Costruita in bankò, cioè con mattoni di argilla impastati con paglia ed essiccati al sole, è ampiamente diroccata e non rimangono che pochi ma imponenti muri situati tra due piccoli laghetti (stagni) uno di acqua dolce ed uno di acqua salata. Il luogo è di una bellezza sublime. Macchie rocciose che emergono dalla sabbia, grandi massi che si tagliano sul compatto sfondo della falesia, il verdeggiare delle palme, le pozze d’acqua con la loro vegetazione. E poi i muri dell’antica fortezza/città “sciolti” dal tempo da cui, come antiche vertebre, si stagliano i resti dei rami di palma, creano la sensazione di un luogo "denso" ed indimenticabile. Ma alla domanda perché gli abitanti del luogo non vivano più in questo posto così bello e ne abbiano costruito un altro nella vicinanze la risposta è lapidaria: le zanzare. La sera qui deve essere un vero inferno con migliaia di insetti volanti che salgono a nugoli da questi stagni. In tutta questa zona si pratica la coltivazione della palma che, nei periodi di raccolta, richiede mano d’opera e fa confluire qui molti braccianti, perché a qualsiasi latitudine, la coltivazione della terra richiede dedizione e forza lavora.

UN ALLOGGIO

Su indicazione del capo villaggio al nostro alloggio provvederà una signora che ci mostra orgogliosa una capanna di canne con annesso un grande recinto definendolo un ostello in cui spera di ospitare gli stranieri che passano di là. Ci accomodiamo nella parte coperta e seduti sulle stuoie che ricoprono quasi tutto il pavimento, ci rilassiamo chiacchierando con la nostra ospite ed alcune sue amiche. Il marito, ci dice, è fuori per lavoro e, in effetti, in giro per Chirfa non abbiamo visto molti uomini. È la prima volta che veniamo a contatto con dei tubu, un’etnia sahariana del ceppo degli Etiopidi, che vivono prevalentemente di pastorizia. La leggenda narra che un tubu sia l’essere umano più resistente alle condizioni del Sahara in quanto è in grado di resistere per tre giorni con un solo dattero. Il primo giorno mangerebbe la buccia, il secondo la polpa ed il terzo il nocciolo. I tubu sono da sempre fieri nemici dei touareg a cui contendono queste vaste zone desertiche.

LA FIGLIA ADOLESCENTE

Arriva anche la figlia dodicenne della nostra ospite che, ci dice la madre, è già sposata. Ci guardiamo l'un l'altro perplessi tant'è che la nostra ospite si sente in dovere di spiegarci che il matrimonio non è stato ancora consumato e che ciò avverrà quando la figlia avrà un’età appropriata. Per ora i suoi "doveri" coniugali sono di semplice accudimento. In effetti questa dei matrimoni di bambine adolescenti è un'usanza abbastanza comune in molte zone rurali, non solo in questa parte di mondo. Rimane sempre il dilemma se giudicare considerando le proprie regole come migliori e più evolute oppure osservare e rispettare le usanze delle civiltà con cui si viene a contatto sapendo che sono basate, in alcuni casi, su esigenze ambientali e naturali che fanno prevalere la coscienza collettiva, famiglia, clan, villaggio, su quella individuale. Con tutte le eccezioni del caso ovviamente. Eccezioni che, però, siano basate su dati oggettivabili e non su conoscenze appena abbozzate, come molto spesso si usa. Oh quante cose, che si sono rivelate stupidaggini, ho detto ed ho sentito dire a proposito di altre civiltà. Poi arriva il buio e ci accorgiamo che non c'è energia elettrica se non nelle poche case dove i proprietari dispongono di un generatore. Alla luce delle pile e del braciere che la nostra ospite ci ha lasciato, la serata scivola lentamente verso un frugale pasto e la preparazione dei sacchi a pelo.

BENZINA

"Oh dai che dobbiamo fare benzina." Caricate le moto e la macchina seguiamo un ragazzino che su indicazione della nostra ospite ci porta ad un'abitazione dove contrattiamo con il proprietario i litri di benzina ed il gasolio che ci servono. In poco meno di venti minuti siamo pronti per partire. Torniamo indietro e passiamo davanti all'accampamento militare dove ci sottoponiamo nuovamente all'identificazione che, fortunatamente, procede in modo molto veloce. La postazione è costituita da due bassi speroni rocciosi uniti da un muro, apparentemente in bankò, da cui spuntano diversi militari, tutti intenti alle proprie faccende personali, non si vedono armi e tranne il militare di guardia non c'è certo un'atmosfera marziale in giro. Però è sempre meglio non fidarsi troppo. Questa è una zona di confine in cui ogni tanto capitano degli scontri a fuoco ed ho già sperimentato in passato che non bisogna mai lasciarsi condizionare da queste atmosfere svagate. Prendiamo la pista che parte da questo avamposto e che costeggia la falesia in direzione sud-est. Si rivela da subito abbastanza facile, scorrevole e divertente, invita ad aprire il gas. Il fondo è compatto e la pista risulta ben visibile quindi non ci sono incertezze di navigazione.

SEGUEDINE

Sempre costeggiando la falesia si supera il Col de Sara, un'altura appena pronunciata e si punta verso il villaggio di Séguédine. Arrivando al villaggio la pista descrive un'ampia curva verso est e non punta direttamente gli edifici che si cominciano ad intravedere giusto davanti a noi a sud. Non capisco il motivo di questo allungamento e, forte della direzione che mi indica il GPS, mi dirigo direttamente verso l'oasi. Dopo una decina di metri capisco velocemente il motivo di questo arco. Mi trovo ad attraversare una zona di piccolissime dune, durissime e compatte, delle "whoops" naturali, faticosissime e che rischiano di farmi cadere. Sono quindi costretto a riguadagnare la pista e a raggiungere su questa l'abitato, che sembra un villaggio fantasma, dato che non incontriamo nessuno, tranne i militari di stanza, che ci fermano per l'ennesimo veloce controllo. Forse gli uomini sono tutti al lavoro nelle saline, ma non vediamo in giro ragazzini o donne. Abbiamo percorso circa una centinaio di chilometri, non è ancora tempo di fermarsi.

SABBIA MOLLE

Dopo il villaggio la pista sale su una scenografica e relativamente ripida "collina" sabbiosa puntando direttamente verso il Pic Zoumri, una formazione rocciosa alta appena 600 metri ma ben visibile soprattutto venendo dal piatto Ténéré. Pieghiamo verso sud per accostarci alla falesia, che è ora molto presente e delimita verso est la pista che punta sud-sud ovest. Il fondo diventa di sabbia molto molle ed estremamente impegnativo per i motori. Ci sono tracce e solchi dappertutto ed occorre guidare con attenzione. Ma è la consistenza della sabbia la difficoltà maggiore. Non si può lesinare il gas pena l'insabbiamento, ma l'urlo dei motori costantemente su di giri fa sperare che questo tratto finisca presto. Forse sarebbe meglio passare più lontano dalla falesia dove ci sono meno tracce, ma siamo un po' preoccupati per la macchina: se si pianta potrebbe non essere facile "disinsabbiarla". Aggiriamo la punta Ngam Sounosso della falesia ed ora la pista da sud-sud ovest punta tutto sud, ma la sabbia rimane sempre mollissima. Ci troviamo davanti una duna che, con un altro tipo di sabbia avremmo tagliato, ma decidiamo di aggirarla a debita distanza dopo che Maurizio si è piantato fino ai mozzi essendosi avvicinato troppo. Abbiamo dovuto faticare per farlo ripartire. Transitiamo dal villaggio di Lotey in cui siamo sommersi dai bambini, giustamente curiosi di vedere da vicino gli stranieri che passano dalle loro parti, ma per noi, che cominciamo ad essere stanchi, non è molto piacevole dover rintuzzare la loro esuberanza. Certo ne fanno di figli i Tubu!!! In uscita ci sono un paio di banchi di fech fech da affrontare ma non sono molto estesi e li superiamo di slancio, mancano ancora una cinquantina di chilometri alla destinazione e fortunatamente la sabbia diventa progressivamente più dura consentendoci di rilassarci un po'. Ed eccoci finalmente a Dirkou, così dice la mappa del GPS, perché di cartelli con indicazioni, ovviamente non ce ne sono. Abbiamo percorso circa duecentocinquanta chilometri da stamattina.

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DIRKOU

L'arrivo a Dirkou è singolare. La pista si dirige verso un ampio piazzale ai limiti dell'abitato. Accanto al piazzale c'è una postazione militare delimitata da una barriera in filo spinato. Per evitare che chi arriva si avvicini troppo a questo filo sono stati disposti a terra detriti di auto ed altri pezzi di ferro così da formare una barriera che costringe ad allargarsi evitando di accostarsi alla zona militare. Fa un certo effetto vedere il pianale di un'auto con ancora attaccato il relativo volante divenire un "distanziatore". Un modo "creativo" tipicamente africano di riutilizzare i rifiuti. Il piazzale è il luogo da cui partono ed arrivano i camion che fanno la spola con le altre sponde del deserto. Quando arriviamo c'è solo un camion in attesa di partire ma sul piazzale circolano un paio di ambulanti che vendono diversi genere di conforto utili ai viaggiatori, dalle gomme americane ai preservativi. Troviamo un militare in libera uscita che ci informa che dobbiamo registrarci presso la gendarmeria e che non ci sono alberghi, dovremo seguire le indicazioni che ci darà il capo dei gendarmi.

DORMIREMO IN CASERMA

Esaurite le pratiche burocratiche passiamo agli aspetti più pratici del dove dormire. Inaspettatamente ci viene detto che potremo dormire qui, dentro il recinto della caserma, che è in effetti abbastanza ampio, sistemandoci sotto il tendone che ne copre una parte. Accettiamo e non perché non ci siano alternative. Potremmo uscire dall'abitato e campeggiare un po' più a sud. Ma dobbiamo riparare o sostituire una delle due gomme di scorta della macchina, che si è squarciata contro un sasso già qualche giorno fa e qui è un posto dove sicuramente troveremo dei ricambi. Inoltre non mi piace questo posto, si respira un'aria "malsana", è un crocevia di traffici di tutti i tipi, compresi quelli umani, quindi per quanto la cosa non ci entusiasmi rimaniamo qui, che è un posto un poco più protetto. Ci mettiamo quindi alla ricerca o di un pneumatico nuovo o della possibilità di poterlo in qualche modo riparare quello vecchio. La parte centrale dell'abitato, quella più vicina allo spiazzo dei camion è piena di negozietti, bancarelle dove si trovano una quantità impensabile di pezzi di ricambio ma anche cibo in scatola, verdure ecc. Proviamo da vari "gommisti" ed alla fine la soluzione più conveniente risulta quella di far letteralmente ricucire la parte dello pneumatico squarciata, che ci verrà riconsegnato l'indomani mattina. Ci diamo da fare anche a trovare delle guide con cui attraversare il tratto da Bilma ad Agadez. Ne avevamo parlato già prima della partenza dall'Italia dell'opportunità di affiancare un'altra macchina a quella che viaggia con noi e che possa farci attraversare questo tratto, che reputiamo impegnativo, con maggior sicurezza. La trattativa è come al solito lunga. Devo dire che i tubu sono, al pari di molti touareg, poco inclini al mercanteggiamento e devo far ricorso a tutte le tecniche che ho imparato in anni di viaggi in questi posti, ma alla fine riusciamo ad accordarci per una cifra ragionevole e ci diamo appuntamento per il giorno dopo a Bilma.

DIRKOU CROCEVIA DI TRAFFICI

Il villaggio è abbastanza esteso come dimensioni globali, tutte le costruzioni sono in bankò ad solo un piano. Non ci sono finestre verso l'esterno ma solo porticine o cancelli che danno su un cortile dove affacciano le altre parti dell'edificio, come è normale per costruzioni di questo tipo. Quelle prospicienti la via principale sono abbastanza grandi da avere un cortile interno molto ampio in cui si intravedono persone, quasi esclusivamente di colore, al lavoro su auto e camion di tutti i generi come se tutti si preparassero a partire. In effetti guardando la cartina geografica il posto risulta strategico, nel suo essere baricentrico, tra rotte provenienti dall'Africa nera verso la Libia ed il mediterraneo. In pochi posti al mondo ho avuto una sensazione così acuta di mancanza di fratellanza umana. Questa sensazione è stata confermata da un reportage giornalistico che ho letto al mio ritorno, dedicato a fare luce su dove finissero i migranti fermati alla frontiera libica e respinti indietro grazie ad un accordo tra il nostro governo e Gheddafi. Guarda caso proprio a Dirkou, dove venivano trattenuti in condizioni di semi-schiavitù finché non erano in grado di pagare una sorta di riscatto. Qui le catene ed i guardiani non sono necessari, senza soldi od un mezzo di trasporto da qui non ti muovi.

UN INCONTRO INATTESO

Ritorniamo in caserma e troviamo una piacevole sorpresa. Ci sono anche due motociclisti conosciuti in nave, ritrovati a Djanet ed ora incrociati qui. Enrico e Claudio viaggiano in completa autonomia con le loro Yamaha TT 600 e e per questo, oltre alla tradizionale sacca, sono costretti a portarsi anche una tanica di 20 litri di benzina sulle spalle, opportunamente imbracata. Erano partiti in tre ma a Djanet una delle moto, anch'essa una TT, aveva manifestato un forte scampanellamento del pistone, costringendo il terzo pilota a rientrare via asfalto per non trovarsi in guai più seri nel bel mezzo del Ténéré. Avremmo volentieri condiviso questo percorso con loro, ma tempistiche diverse avevano fatto sì che noi si sia partiti prima e che loro ci precedano ad Agadez. Infatti, la mattina, dopo una piacevole serata di chiacchiere ed un buon piatto di spaghetti, al nostro risveglio non li troveremo più accanto a noi. Dovevo dormire proprio profondamente se non ho sentito avviarsi le moto. Gli scarichi liberi delle due TT non sono certo silenziosi.

QUALCOSA DI SPECIALE

Con più calma anche noi ci apprestiamo a partire quando il gendarme capo mi chiama e mi invita ad entrare nel suo ufficio. Alto di pelle scura, ben curato porta occhiali scuri che si toglie appena entriamo nel suo fresco e ben curato ufficietto. La stanza è in penombra dato che la luce filtra solo dalla porta ed è rischiarata da una piccola lampada sulla scrivania. Con molta calma mi chiede di nuovo il passaporto, lo guarda, lo sfoglia e mentre con un gesto lento e calibrato me lo restituisce mi chiede: "Avete qualche regalo speciale per me?" Era la cosa che sospettavo e non sono colto di sorpresa dalla sua richiesta. Allungo la mano e riprendendo il passaporto gli dico che abbiamo pochi spiccioli con noi e che in moto non ho molto spazio per trasportare oggetti. Forse i miei amici automobilisti potrebbero avere qualcosa. Così dicendo mi incammino verso l'esterno, mostrandomi deferente verso la sua persona ma abbastanza determinato da non dargli modo di replicare niente. All'esterno chiedo a Billi se abbiamo qualcosa di speciale con noi. In effetti fruga nella macchina e ne cava diverse bamboline snodate che aveva portato come regalo per i bambini che avremmo incontrato. Sono degli oggetti quanto meno singolari e che invitano al sorriso. Ne faccio dono al capo di una decina, trattandole come merce preziosa. Lui rimane sbigottito anche se non eccessivamente contrariato, niente soldi o alcool ma almeno i suoi bambini saranno contenti.

ANCORA VERSO SUD

Usciamo dalla caserma ed andiamo e ritirare la gomma prima di attraversare il piazzalone, dove in attesa ci sono un paio di camion, in parte carichi di merci ed uomini e riprendiamo la marcia. Passiamo accanto ad una pista di atterraggio, presidiata da un carro armato e da un gruppo di militari abbastanza vigili, che ci ricorda, casomai ce ne fossimo dimenticati, in che zona ci troviamo. Continuiamo in direzione sud-est e poi tutto sud, su di una pista battuta e ben individuabile, che costeggia la falesia in cui si alternando passaggi sabbiosi ad altri con ciuffi d'erba e terra più dura. Ci sono molte tracce e molti solchi per cui in moto non ci si può distrarre, ma occorre rimanere concentrati e guidare scegliendo i passaggi che si reputano meno impegnativi. Il tragitto è breve e, in un paio di ore, copriamo i centocinquanta chilometri che separano i due villaggi.

BILMA

Anche qui occorre registrarsi alla gendarmeria che è proprio al centro del paese, ma l'atmosfera che respiriamo è completamente diversa. La dimensione complessiva del luogo è più piccola rispetto a Dirkou ma si ritrova l'aria di un posto normale. La tipologia delle abitazioni è la stessa ma non ci sono negozi né baracchini in mezzo alle strade, solo il tranquillo via vai delle persone che vi abitano. Ci troviamo comunque in un luogo storico per il Sahara, dato che qui ci sono delle importanti saline che hanno reso questo luogo abitato ed attivo fin dal medioevo. Come da accordi ritroviamo i due tubu che ci faranno da guida presso il meccanico del posto, un punto facilmente individuabile all'ingresso dell'abitato. Davanti si trova quello che il proprietario definisce un albergo dal nome: Amici del Kaouar. In realtà si tratta di una casa con un cortile interno non molto grande con da un lato una tettoia e tre stanze che ci affacciano su di esso e da esso prendono luce. Dal lato opposto la porta di ingresso c'è una porta che da su un altro cortile più piccolo sul quale si affacciano altri locali, probabilmente dei magazzini ed anche un locale col pavimento cementato dove c'è una canna per la doccia ed uno stanzino con una turca. Dato che siamo gli unici ospiti, il proprietario, una volta accordatici sul prezzo, ci lascia completamente padroni dell'abitazione. Facciamo entrare le moto nel cortile, scarichiamo la macchina e ci apprestiamo a cucinarci una buona cena contenti di questa opportunità. Anche qui non c'è energia elettrica e con il tramonto del sole tutto si scurisce.

ABBIAMO OSPITI

Sentiamo bussare alla porta e ci troviamo davanti una coppia di francesi che sono gli unici altri occidentali del villaggio, sono venuti a fare due chiacchiere. Li accogliamo nella nostra casa e gli offriamo un goccio di grappa e scambiamo le nostre storie. Loro sono partiti circa un mese fa da Agadez aggregandosi ad una delle carovane che vengono qui a prendere il sale ed ora sono qui in attesa di ritrovarne un'altra per rientrare. Una bella esperienza ci dicono anche se è duro alzarsi prestissimo, caricare il proprio cammello e viaggiarci fino a notte, il tutto senza soste per più di tre settimane. Ci invitano a fare due passi ed usciamo insieme in questo che sembra un villaggio disabitato. Non si odono rumori, non ci sono luci di nessun genere che filtrano dalle abitazioni e fortuna che c'è un po' di luna per rischiarare le strade dove camminiamo. Li riaccompagniamo alla loro abitazione facendo una deviazione a quella che dicono sia l'osteria del villaggio. Entriamo in un locale dove non c'è nessuno, solo un tavolo ed alcune panche alle pareti. L'oste è un ragazzo che non ha altro da offrire se non del Pastis, un liquore francese all'anice. Il liquore è servito per mezzo di un dosatore in plastica a doppio movimento. Prima si inclina la bottiglia in avanti, poi di lato e nel dosatore rimane la quantità giusta di liquore da servire agli avventori. Sono stupito di trovare qui un liquore ed un accessorio più consoni ad un'osteria delle nostre parti che a questo luogo. Usciamo di nuovo nel villaggio deserto e ritroviamo con qualche fatica la strada per il nostro alloggio, non ci sono riferimenti particolari che ci possano guidare, se non il contare a ritroso le svolte che abbiamo fatto.

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LE SALINE

La mattina verso le dieci veniamo raggiunti dalle guide ed usciamo dal paese, ma, prima di lanciarci verso il nulla (ténéré appunto) facciamo visita alle saline che sono la fonte della vita di quest'oasi. Si trovano poco a nord-ovest dell'abitato ed a quest'ora del giorno non c'è nessuno. Ahmdou, una delle nostre guide ci spiega che l'estrazione del sale avviene per evaporazione all'interno delle vasche colme di acqua dove si cristallizza e gli operai, con le gambe a mollo, raschiano ed asportano per poi essere lavorarlo, setacciarlo e confezionarlo in panetti a forma di "scodelle" o di "paracarri" pronti per essere caricati sui cammelli. Il suolo è rugoso e duro, ci si cammina a fatica anche con gli stivali. Una degna rappresentazione del lavoro che vi si svolge, che deve essere sicuramente faticosissimo di per se stesso che, con l'aggravante del sole di queste latitudini, diventa veramente sfiancante.

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IL TÉNÉRÉ

Via, via, dai, andiamo a scoprire come è fatto questo mitico deserto.

La pista, dopo un breve tratto di terreno duro, si incanala nel tratto pianeggiante tra due cordoni dunari (detto gassi) che hanno direzione ovest-sud-ovest. La sabbia è molle ma meno impegnativa di quella trovata a nord di Dirkou. Occorre comunque tenere una certa velocità per galleggiare e la cosa non mi dispiace per niente. Alle volte il cordone che stiamo seguendo finisce e lo spazio si allarga, altre volte se ne forma uno che divide lo spazio e nel qual caso prendiamo il corridoio più a sud, come vediamo fare alla guida. L'inizio di un nuovo cordone è sempre uguale e sempre particolare. Inizia con una duna tonda, una specie di chiave di violino, che poi si allarga e dà luogo alle altre creste prendendo spessore. Mi avventuro in uno di questi cordoni per scoprire che la sabbia che la compone è terribilmente molle. Tenendo il motore al massimo dei giri e maledicendomi per essere andato a cercar guai, riesco a percorrerne un tratto ad arco superando un paio di creste cercando di ritornare sul piano, ma finisco per insabbiarmi. La moto è pesante, dato che è ancora piena di benzina e chiamo in soccorso Maurizio e gli altri che erano rimasti fermi a vedere come andava a finire la mia deviazione. Mi raggiungono a piedi e mi aiutano a piegare la moto da un lato ed a riempire la buca scavata dal posteriore prima di raddrizzarla di nuovo. La riaccendo e la spingo in seconda verso una zona dove sono già passato e la sabbia è più compatta. Poi risalgo in moto e con il motore spinto al massimo supero di slancio la zona in cui mi ero insabbiato ridiscendendo fino a raggiungere il piano. Ho così scoperto che il Ténéré è relativamente facile se lo percorri est-ovest, molto impegnativo se devi scavalcare i cordoni dunari in direzione nord-sud.

È COSÌ FACILE PERDERSI

Con le macchine procediamo ad elastico. Noi motociclisti andiamo avanti per un po' poi ci fermiamo ad aspettare che ci raggiungano e poi via. Ad una sosta, però, l'attesa si prolunga e sperando che non sia successo niente torniamo indietro fino a ritrovare il punto in cui appaiono anche le tracce delle auto. Invertiamo la rotta e prendiamo a seguirle vedendo che deviamo dalla direzione che avevamo tenuto, puntando un cordone e scomparendo al di là. Raggiungiamo le macchine che, accortesi della nostra mancanza, erano ferme ad aspettarci. Anzi Billi aveva tirato fuori dalla macchina un aquilone che aveva iniziato a far volteggiare con la speranza che noi lo notassimo e li raggiungessimo. L'aquilone vola non male ma è comunque troppo basso e ci sarebbe stato quasi impossibile notarlo. Devo dire, però, che le risorse di Billi, prima con le bamboline e poi con quest'ultima trovata sono state alquanto creative. Non per niente si occupa di grafica. Ricompattati riprendiamo ad andare verso ovest. Passiamo un altro cordone di dune dove la sabbia è molto molle e richiede potenza. Stiamo ora puntando decisamente verso sud ed iniziamo ad intravedere dei rilievi davanti a noi. Il terreno si fa progressivamente duro, sfiliamo i primi rilievi aggirandoli da sud ed entriamo in una specie di conca delimitata anche ad est da bassi rilievi di roccia nerastra. Pieghiamo verso sud puntando verso l'oasi di Fachi dove faremo tappa, anche se è ancora presto ed abbiamo percorso circa centosessanta chilometri. Il nostro modo di viaggiare è sempre molto blando e volto a godere dei luoghi che attraversiamo, per cui la mattina partiamo sempre con calma e se non ci sono particolari esigenze ci fermiamo abbondantemente prima del tramonto.Questa oasi è una specie di isola in questo immenso mare di sabbia, protetta da piccoli rilievi rocciosi che riescono ad isolarla dal contorno. Ci sono palme, acqua e delle saline che danno lavoro. Decidiamo di fare campo prima del paese per gustare il più possibile dove siamo ed i panorami che abbiamo attorno. Il tramonto, un bel fuoco, un pasto consumato chiacchierando sono il giusto complemento a questa giornata.

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FACHI

La mattina dopo attraversiamo il paese che è simile a Bilma come tipologia di abitazioni, sempre in questo scuro banco, anche se queste sono più rade. Il villaggio è più piccolo e ci sono diverse tamerici lungo le strade. Al centro si trova una sorta di fortino/granaio, un edificio quadrangolare con delle torrette agli angoli, che serviva, fino a qualche tempo fa, a proteggere le popolazioni dai raid dei razziatori del deserto, fossero essi tuareg, mauri o altri tubu. Veniamo attorniati da una miriade di bambini che ci si accalcano intorno e che ci tolgono quasi il respiro. Con la moto occorre fare attenzione a questi piccoli perché nelle vie interne la sabbia è molle e controllare la moto andando piano non è facile. Dopo una breve sosta per caricare un po' di acqua usciamo dall'abitato riprendendo la consueta direzione est-ovest. La tipologia di terreno è la stessa, così come la consistenza della sabbia. I cordoni in questo primo tratto sono più distanti e si ha quasi la sensazione di galleggiare nel nulla dato che mano a mano che il sole si alza le ombre tendono a scomparire. Il terreno è un po' ondulato senza avvallamenti pronunciati cosa di cui ci si accorge solo sentendosi spingere in avanti od indietro sulla sella a seconda che si tratti di una cunetta o di un dosso.

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LA CAROVANA

Ad un tratto comincio a vedere dei puntini apparire davanti a me che, mano a mano che mi avvicino si definiscono come i componenti, uomini ed animali, di una piccola carovana. Mi fermo a debita distanza, per non spaventare i cammelli (va beh i dromedari) e vengo raggiunto da due uomini che si staccano correndo dal gruppo per chiedermi se ho delle sigarette, ma, purtroppo per loro, non fumo. Di corsa si riaggregano ala carovana che ovviamente non si era fermata, procedendo nella direzione opposta alla nostra. Una fugace quanto affascinante apparizione. Di nuovo in moto, non fa caldo e la guida non è particolarmente impegnativa. Anche le macchine procedono veloci e non ci sono particolari problemi. Troviamo sulla pista un paio di camion che si sono fermati per fare riposare le persona a bordo. Trasportano merci e persone che sono issate in cima al cassone e che devono patire il freddo dato che molti sono avvolti in coperte. Le nostre guide si fermano a chiacchierare con i conducenti mentre gli occupanti dei camion si sgranchiscono le gambe. Camion e cammelli (dromedari) solcano entrambi il deserto trasportando merci e persone. Ad un certo punto si pensava che l'epoca delle carovane animali fosse finita, a favore dei mezzi meccanici. Ma non è stato così. I camion sono veloci e trasportano un'enorme quantità di merci ma si guastano e bisogna pagare per riempirli di carburante. I cammelli trasportano meno roba, ma si riproducono e si accontentano dell'erba che si può trovare gratis lungo il tragitto. Mancano circa una ottantina di chilometri all'albero del Ténéré, uno dei punti più importanti di questa parte del deserto dato che qui si trova il primo pozzo dopo Fachi, oltre al fatto che sia segnato come punto fisico su tutte le mappe del deserto.

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L'ALBERO DEL TÉNÉRÉ

Con Maurizio ci viene ql frenesia di raggiungerlo il più presto possibile ed iniziamo ad accelerare. Non seguiamo più alcuna traccia ma solo la freccia del GPS che indica dove andare. Incominciamo a trovare dei ciuffi d'erba (la famosa herbe a chameaux) che con radici lunghissime sono piantate nel terreno, hanno la consistenza di pietre e bisogna evitare di passarci sopra. A tratti questi sono più fitti ed occorre fare un vero slalom per evitarle. Ma eccoci finalmente all'albero. Che delusione!! No non per l'albero che è in realtà sono tre fusti metallici con sopra dei pali saldati a mo di rami, ma è il luogo sporco e pieno di scatolette ed ossa di animale a deluderci. Però, rifletto, questo non è un monumento, anche se è un luogo quasi mitico per noi viaggiatori sahariani, ma un semplice punto di orientamento per chi vi transita con altri propositi che non un viaggio di piacere. Accanto, infatti, troviamo il molto più rilevante pozzo che è la vera parte importante di questo posto. Poco più in la vedo una specie di altra costruzione metallica che non capisco se sia una installazione artistica o che altro. Sembra una specie razzo bidimensionale, che potrebbe anche essere un'antenna, non riesco a decifrare che cosa possa essere. Prima che arrivino le nostre auto, dalla direzione di Agadez arrivano un paio di veicoli con un motociclista tedesco che avevamo incrociato in nave. Lui è molto più esaltato di noi di aver raggiunto questo posto e si fa fotografare in tutte le posizioni intorno all'albero. In nave mi era sembrato calmo e determinato, ora sembra un ragazzino invasato. Era partito da solo dalla Germania e per arrivare qui si è aggregato ad alcuni suoi connazionali che gli portano il bagaglio, ma che hanno fretta di arrivare a Bilma. Dovranno correre se vogliono arrivare prima di notte. Quasi in modo coordinato le auto arrivano quando questo piccolo gruppo con motociclista aggregato spariscono in direzione di Fachi. Anche Billi e la Raffa non trovano per niente poetico questo posto. Fino a diversi anni fa al posto di questo segnale metallico c'era un albero vero, una acacia con il suo spinoso manto. La leggenda vuole che nel 1973 un camionista libico, ubriaco, lo abbia sradicato e da allora è conservato nella capitale del Niger, Niamey, sotto una specie di gazebo. Ma contrariamente a questa storia Cino Boccazzi, il viaggiatore/esploratore italiano, sostiene che questo sia morto naturalmente dopo una tempesta e che lui ne sia stato testimone. Bene, fino ad ora abbiamo viaggiato facendoci indirizzare dalle nostre guide, ora sono loro che dovranno seguirci perché il posto dove intendiamo andare non lo hanno neanche sentito nominare. Andiamo verso sud al cimitero dei dinosauri dove arriveremo domani. Dall'albero in poi comincia ad esserci, anche se rada, della vegetazione e compaiono altri alberi isolati (questa volta veri). Il terreno è abbastanza compatto e si viaggia tranquillamente. Proseguiamo per una cinquantina di chilometri, prima di fermarci per la notte presso un boschetto di acacie, punteggiato qua e là da massi tondi. Campo con un bel fuoco, persino troppo, data l'abbondanza di legna. Cibo, chiacchiere e pensieri. Chissà come sarà domani?

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VERSO I DINOSAURI

Ci distacchiamo sempre di più dalle zone battute puntando a sud. Non c'è pista per cui, nei tratti sabbiosi, bisogna trovare i varchi tra le dune. La cosa non è particolarmente difficile, richiede solo un po' di attenzione. Con le moto cerchiamo i passaggi, ma questi non sempre risultano efficaci anche per le macchine, perché, come ho sempre pensato, due ruote passano meglio di quattro. Fondo piatto poi ancora dune non alte ma con tratti di sabbia molle. Le dune si fanno più serrate e occorre di nuovo fare attenzione, scegliendo i passaggi per evitare la sabbia molle. Basse creste sabbiose si alternano a zone dal fondo duro. Raggiungiamo un'altra zona pianeggiante. Riordiniamo le idee. La valle dei dinosauri è dietro il cordone di dune che si trova verso sud, così mi dice il GPS, però è troppo alto e difficilmente valicabile dalle auto, per cui decidiamo di proseguire verso ovest, sperando di trovare un passaggio più agevole. Abbiamo percorso circa un centinaio di chilometri da stamattina. Dopo una diecina di chilometri raggiungiamo una zona dove le dune si abbassano e la sabbia è compatta riuscendo a puntare di nuovo verso sud. Mi accorgo di avere bucato l'anteriore ma è anche ora di pranzo per cui le due cose coincidono, riparazione e cibo. Dopo il frugale pasto vado in avanscoperta per capire se le dune che abbiamo davanti sono transitabili. I passaggi risultano agevoli per cui ritorno a ripescare gli altri per quest'ultimo pezzetto. Raggiungiamo la valle dopo aver aggirato un ultimo cordone. Il terreno è di nuovo duro e a terra vediamo delle strane file di pietre che formano delle gobbette del terreno. Sono le spine dorsali di quegli enormi rettili che popolavano la terra centomila anni fa. Ma non uno, dieci, venti non finiscono più. L'area è veramente vasta. Mai avrei pensato che vedere degli scheletri sarebbe stato così profondamente emozionante e toccante. Queste ossa sono la cosa più vecchia che abbia mai visto o toccato in vita mia. Se scavi poi, vedi apparire le ossa del bacino, le zampe, le altre parti dello scheletro pietrificato nella stessa posizione in cui li ha colti la morte. Avevo letto di questo posto, ne avevo parlato con Stefano, l'amico che ci era stato l'anno prima e che mi aveva dato i punti GPS del sito, ma una cosa è leggerne e parlarne, un'altra è trovarsi tutto questo davanti. Anche le nostre guide sono esterrefatte: non avrebbero mai immaginato che nel loro territorio ci fosse un posto come questo. Fortunatamente una combinazione di fattori ha fatto si che questo luogo si sia mantenuto abbastanza intatto. Il clima secco è il primo di questi. Fuori dalle normali rotte i locali non lo conoscono, come le nostre guide, mentre quelli che ne hanno sentito parlare, non sanno proprio che andarci a fare. Buon ultimo, è faticoso e non facile arrivarci e la zona non sempre è sicura, per cui è poco adatta al turismo di massa. Quindi nonostante questa zona sia nota degli anni sessanta e vi siano stati fatti diversi scavi è ancora ricoperta dei resti di questi grandi animali. Dopo un'ora di scavi e foto dobbiamo staccarci da questo posto. Domani dobbiamo essere ad Agadez dove i nostri accompagnatori ci lasceranno.

LEZIONE DI TUBU

Puntiamo quindi decisamente verso ovest. Il fondo è ora duro e non ci sono più attraversamenti di dune ed i tratti sabbiosi hanno un fondo compatto. Si passa accanto ad picco isolato, Tédelgoulaouene il nome che la carta riporta. Un grosso roccione che si staglia su questi orizzonti bassi e sabbiosi. Facciamo campo al centro di una zona di basse dunette che ci proteggono dal vento, inoltre c'è della legna, cosa eccezionale, data la scarsa vegetazione. Non fa molto freddo ed abbiamo dormito senza montare la tenda anche ieri, ma è sempre piacevole avere il fuoco per scaldarsi o anche per semplice compagnia. Il fatto è che noi tendiamo ad usare troppa legna, così ci fanno notare i nostri amici tubu. La legna è secca ed arde benissimo e non c'è necessità di fare fiamma per scaldare, come noi siamo soliti fare. Forse, il fatto di aver condiviso con loro questo luogo "segreto" li ha resi più loquaci o vogliono evitare che bruciamo troppo legna non lasciandola per chi potrà passare di qui dopo di noi. Nel deserto tutte le risorse sono limitate non solo l'acqua. Ci mostrano come fare ed intorno al loro fuocherello la conversazione continua. Ci insegnano una serie di parole nella loro lingua che è molto diversa dal quella tuareg. Hanno nomi differenti per i tipi di sabbia, per il fondo del terreno e sono diversi anche i modi di dire. Se solo avessi avuto la prontezza di registrare la conversazione o almeno di scriverle queste parole. Già infilandomi nel sacco a pelo non me ne ricordavo più nessuna.

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AGADEZ

Va beh, l'albergo non sarà un gran che, però è proprio davanti alla moschea, vuoi mettere? La pista per arrivare è stata relativamente facile. Dopo la partenza, progressivamente, i tratti pietrosi avevano preso il sopravvento su quelli sabbiosi, arbusti ed alberi punteggiavano il percorso. Non c'era una vera pista ma delle tracce qua e là e la freccia del GPS come orientamento. Si discende la falesia di Tiguidit per immettersi in una pista dal fondo variabile: sabbia, sassi, pietre, che passa anche attraverso un boschetto di acacie. La pista diventava sassosa per poi confluire in uno sterrato compatto, poco prima di arrivare ad Agadez dove le strade principali sono asfaltate. La città è abbastanza grande (per gli ambiti sahariani si intende) e ricca. Qui si incontrano tuareg, peul, haussa, arabi. Anche un paio di italiani ci vivono. Uno ha aperto un ristorante. Con Maurizio erano anni, sin dal nostro primo incontro in Libia, che ci eravamo proposti di visitarla ed ora ce l'avevamo di fronte. Agadez non è conosciuta come Timbuctu, ma è uno dei centri più importanti della zona sud del Sahara. L'immagine della sua moschea principale è diventata una vera icona per chi viaggia nel deserto.

Raggiungerla, provenendo dal Ténéré, costituisce una sorta di laurea sahariana, che ci godiamo sorseggiando, dopo tanti giorni, una bella birra fresca.

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